I commenti alla mia
chart 2013.
1. Barn Owl – VLo scorso anno si erano presentati con dei dischi soliti, Black Mesa per Porras, Night Dust e Dreamless Sleep per Caminiti. Quest'anno mettono insieme le forze per, senza dubbio, il loro miglior disco nonché in assoluto una della migliori proposte dell'anno per il genere e non. Un full immersion oscura, dilata, che passa tra il doom e l'interstellare (Voix Redux), tra distorsioni in un'atmosfera impalpabile (The Long Shadow Against The Night), cattedrali heckeriane (Blood Echo), fino a lidi ancestrali (Pacific Isolation) e alla meravigliosa The Opluent Decline, la lunga suite che rappresenta l'attracco definitivo. Top.
2. AUN - Alpha HeavenUn viaggio cosmico che ha il suo inizio nella maestosa oscurità di Koenig, passa per i meravigliosi tappeti di synth in Returna e War Is Near (impreziosita dalla voce di Julie Leblanc, stavolta anche impiegata nella scrittura dell'album), l'omaggio a Steve Roach nella coppia Viva e Vulcan, al tocco heckeriano di Alpha fino alle pulsszioni di Voyager (con ancora presente Julia Leblanc) e la lunga suite a là Klaus Schulze (canzone, insieme alla precedente Footland presente solo come bonus nella versione cd). Saranno necessari diversi anni luce per disperdere tutto il flusso cosmico di questo disco.
3. Lustmord - The Word As PowerCon Brian Williams mi sono cimentato solo con Carbon/Core e [Other], un album in collaborazione con Aaron Turner degli Isis, King Buzzo dei Melvins e Adam Jones dei Tool, tutti e tre chitarristi.
Poi arriva questo The Word As Power e la cosa mi ha sorpreso non poco. Williams, da vero maestro, crea un oblio, un buco oscuro fatto di bordoni, echi e riverberi. E le voci presenti spostano la bilancia ora verso uno spiraglio di luce (Aina Skinnes Olsen in Babel e Ygair), ora in un limbo (l'accoppiata Goetia / Chorazin sempre con Aina Skinnes Olsen o Adras Sodom con Jarboe degli Swans) ora nelle tenebre (Grigori con Soriah e il suo overtone chanting).
Ma la speranza è riposta in Abaddon dove la voce celestiale è di Maynard James Keenan, il frontman dei Tool, riprocessata all'infinito, praticamente irriconoscibile, che fa da antitesi ad un'atmosfera torbida, infernale. Pezzo monumentale, canzone dell'anno.
4. Forest Swords – EngravingsUna borsa sta suonando in fondo alla stanza. Ci avviciniamo, sbirciamo dentro. Si intravede Nicolas Jaar e Clams Casino. Non riusciamo a trattenere la curiosità, la apriamo. Di colpo escono fuori ritmi trip hop, post rock, voce a bassa fedeltà, cut and paste, echi soul e folk, una spruzzatina di dream pop. Iniziamo a rovistare. I glangori metallici di Thor's Stone ricordano i Demdike Stare così come Onward e The Plumes, mentre tribalismi e ritmi orientali fanno da padrone in Irby Tremor. La soul step di An Hour va a braccetto con Anneka's Battle, pezzo in stile Bath For Lashes mentre Gathering è un portentoso call and response. Senza dimenticare la chitarra dei Barn Owl nella monumentale The Weight Of Gold.
Ma in fondo alla borsa c'è la chicca assoluta Friend, You Will Never Learn, che racchiude tutto quando detto finora: ritmo sincopato, anima celestiale, voce low-fi e groove impressionante.
5. Tim Hecker – VirginsE' risaputo, io a Tim Hecker pagherei anche le bollette. Dopo l'immenso The Ravedeath 1972 e dopo averlo perso dal vivo in una Chiesa su un organo a canne a causa della neve nel febbraio dello scorso anno, quest'anno se ne esce con questo Virgins. Se An Imaginary Country puntava su una tavolozza infinita per dipingere il proprio paese ideale e l'organo in The Ravedeath per andare oltre, qua si gioca tutto sulla conflittualità tra il pianoforte e un magma dronico, aspettando un segno per diradare le nuvole, vedi ad esempio Virgianl I & II e le due Live Room. Se Stigmata I riprende la magniloquenza di The Ravedeath, è Stigmate II - pur ricordando la Killshot in apertura di Ben Frost - a sciogliersi in dolcezza nel finale. Chiude il disco la potentissima Stab Variation.
Altra grande prova da parte di Hecker da non perdere, uno dei più grandi artisti di musica elettronica del nostro tempo.
6. James Blake – OvergrownGli ep rilasciati (Enough Thunder e Love What Happened Here) non aggiungevano molto a quando già detto dal ragazzo fino a quel momento. Onestamente pensavo che avesse finito già la benzina, distratto appunto dal successo o da qualche impresario sempre pronto a tirarlo per la giacchetta.
Fortunatamente mi sbagliavo: pur non avendo l'impatto dirompente del primo disco, Overgrown è un grande, grandissimo disco, il disco della maturità. Colpiscono non suoni alieni o la ricerca di qualcosa di nuovo bensì la messa a punto di sound già ben definito e la capacità di scrivere canzoni e di cantarle con una maturità non comune in un ragazzo di 24 anni.
Dimentichiamoci i ritmi claudicanti di Unluck, nella title track c'è un risveglio yorkiano con un filo di melodia a scorrere sotto pelle. La successiva I am a sold è un capolavoro di bellezza impalpabile, con quel basso appena appena accennato. La cassa in prima linea di Life Round Here fa da spartiacque con Take a Fall For Me dove la partecipazione di RZA, leader dei Wu Than Klan, la rende un fumoso incrocio tra soul e hip hop.
Ritornano i gorgheggi in Retrogade (altra meraviglia), praticamente un pezzo a cappella con l'intimismo Tom York e l'anima di Stevie Wonder, dove James continua ad esplorare la solitudine dell'animo umano (Suddenly I’m hit / Is this darkness of the dawn / And your friends are gone / When your friends won’t come / So show me where you fit / So show me where you fit).
In Dlm si manifesta viva la passione per Anthony Hegarty (e ribadisco il concetto che James Blake è l'Antony Hegarty degli anni '10) mentre Digital Lion – con la partecipazione di Brian Eno – ricorda gli scleri ultimi Radiohead.
Chiudono la scintillante Voyer, sorta di micro house & idm stop and go, la sacralità di To the Last (ascoltate in quanti modi riesce ad usare la voce James e quante sfumature riesce a darle) e i mormori pulsanti in Our Love Comes Back.
7. 36 - Shadow PlayAl secolo Dennis Huddleston. Ormai sforna un disco all'anno ma pensavo avesse concluso la sua trilogia, invece se n'è uscito con questo dischetto che, se pur più breve dei precedenti, riesce ad esser un bel disco di musica ambient, etereo e celestiale.
8. Tamikrest - ChatmaTerzo disco nel giro di pochi anni per i Tamikrest, i – sempre per rimanere in termine di parentele – fratellini dei Tinariwen. Stesso paese di provenienza, il Mali e la stessa etnia Tuareg, oltre al fatto che i Tamikrest, negli anni dell'esordio suonavano sia canzoni tradizionali sia le canzoni dei Tinariwen.
Il refrain è sempre il solito ma ci sono anche delle diversità sostanziali con i fratelli maggiori, ovvero un sound leggermente più occidentale, più rock 'n' roll e meno desertico.
Ousmane Ag Moss ha una voce più limpida, un fingerpicking meno abrasivo e, nel complesso, più scintillante, dove il basso rotondo di Cheick Tiglia è sempre in prima fila (vedi Itous o la travolgente Djanegh Etoumast).
Hand clapping e call and response chiudono il cerchio di questo straordinario “from Mali to Mississippi”, immortalato nella bellissima “sorella” in copertina.
9. Steve Mazzaro - Bullet To The Head SoundtrackAhhh ecco ora si spiegano tante cose! Questa è la frase che mi è uscita di bocca quando ho letto il libretto di questo. Perchè si, la colonna sonora di Bullet To The Head, oltre che ad essere una soundtrack che si adagia perfettamente al film, è anche un grande album blues rock - e non solo. La frase di cui sopra è scaturita dal fatto che non conoscevo Steve Mazzaro ma sul libretto c'è scritto che questa colonna sonora è prodotta da Hans Zimmer e dopo una breve ricerca, ho scoperto che lo stesso Mazzaro ha collaborato con Zimmer per le sue recenti produzioni, da The Dark Knight Rises fino a Man Of Steel.
Dicevamo blues. Un bues introdotto dal rullante in Here's The Story che, insieme alla conclusiva e monumentale title track rappresentano i pezzi più squisitamente blues/rock impreziositi da un'armonica senza freni. Armonica che sarà protagonista anche in Staying In The Game, On The Road e It's All Over. Il main theme è sempre presente anche nella parte centrale del disco - Don't Touch My Gun, This Is My City, Guns Don't Kill People, Change of Plans, End Of The Line - meno ritmata ma dal groove e dal photos maggior. Zimmeriana, mi verrebbe da dire. C'è spazio anche per un giro di tango in The Fox And The Hound. Mazzaro se la canta e se la suona. Bene.
10. The Haxan Cloak – ExcavationQuesto disco è la perfetta colonna sonora di quando stai mettendo il lucchetto al motorino e ti senti osservato, ti fermi ad un autogrill alle 2 di notte e scendi giù al bagno. Niente marciume, ma paura si, tanta.
11. Calibro35 - Traditori di TuttiE dopo il fantastico Ogni Riferimento A... questo Traditori Di Tutti è il loro ultimo lavoro. Stavolta niente cover ma il titolo – così come i riferimenti narrativi - è preso dal libro di Giorgio Scerbanenco e tra la morte di Giovanna e dell'amante Silvano i Calibro ci viaggiano dentro, tra funk, prog e psichedelia.
Prologue è un'apertura rassicurante ma già Giulia Mon Amour è un inseguimento in perfetto stile Calibro mentre Stainless Steel è un martello contro un incudine affidata al basso di Luca Cavina. One Hundred Guests e Mescaline 6 sono situazioni losche in salsa prog mentre The Butcher's Bride è l'ora dell'aperitivo, stavolta in versione peccaminosa. Vanno a braccetto in un connubio funky Vendetta e You Filthy Bastards!. La situazione si fa seria nel giro di basso in Traitors ma le algide Two Pills In The Pocket e Miss Livia Ussaro stemperano l'atmosfera con un pizzo di rassegnazione. In Annoying Repetitions scorrono eleganti e dilatati i titoli di coda
Nuovi omicidi sonori (cit) per una band ormai nel pieno della maturità artistica che è riuscita anche ad ampliare la propria proposta componendo tutto il materiale del disco e inserendo strumenti nuovi come l’organo Philicorda, il dulcitone e il mellotron - grazie a Enrico Gabrielli che rappresenta il Brian Jones della situazione.
Tradiscono tutti, ma non cedono a nessuno. Sempre e comunque Calibro35.
12. Jon Hopkins – ImmunityImmunity segna il ritorno di Hopkins (da solista) dopo Insides, uscito nel 2009. Il producer inglese si lancia in una techno plumbea, elegante, soffusa e claustrofobica, post-rave raccontata attraverso un’epica night out (cit), elementi ampiamente riassunti nel videoclip Collider.
Indicato a chi, come me, osserva sempre ma non partecipa.
13. Mario Massa & SaffronKeira - Cause And EffectPeriodo in stato di grazie per il sardo Eugenio Caria. Dopo il monumentale A New Life uscito lo scorso anno per Denovali e l'album Tourette uscito quest'anno (sempre per Denovali), eccolo a dividere lo spazio con Mario Massa, trombettista suo conterraneo.
Ed è proprio il trombettista sardo a metter un freno alla glitch caotica di Saffronkeira, introducendo cuore e calore, come nella magnifica tittle track o nella conclusiva da pelle d'oca South North. Il tutto si snoda tra appunto glitch, field recording, droni, schegge impazzite, delicate pulsioni e i sussurri dilatati di Massa, che mi han ricordato i Dale Cooper Quartet di Matemanoir.
Mille umori, mille frammenti, un disco unico per un sound designer definitivamente sbocciato.
14. Simona Gretchen – Post-KriegQuesta ragazzetta di nemmeno 25 anni in nemmeno 30 minuti di disco si mangia il 90 per cento della musica italiana (e forse qualcosa anche oltre) uscita negli ultimi anni. Post punkissima ma al tempo stessa riesce a cantare con una calma e una disillusa armonia. Grandissima lei e la band di supporto.
15. Donato Dozzy - Plays Bee MaskDonato Dozzy, alias Donato Scaramuzzi, l'avevo già apprezzato lo scorso anno nei Voices Of The Lake, in collaborazione con l'altro italiano Neel. In questa occasione, Dozzy ha deciso di remixare, o più semplicemente di rileggere, una traccia dal titolo Vaporware del producer Chris Madak al secolo Bee Mask.
7 variazioni per il tema centrale. Acqua e pioggia nella prima, dilatazione ipnotica nella seconda e terza, lo space groove techno già sentito nei Voices Of The Lake nella quarta, kraut rock nella quinta e sesta. La settima ed ultima variazione riprende il tema centrale di Vaporware che viene liberato dalle impurità, accentuandone il carattere armonico.
16. Endless Boogie - Long IslandQuinto album per band capitanata da Paul Mayor, il primo che io abbia ascoltato. Non si finisce mai di imparare. Visto di chi stiamo a parlare, niente fronzoli. Blues viscerale, sabbioso, grezzo, che va da Beefearth agli Stooges, passando per primi Rolling Stones e ZZ Top fino ai più recenti Kyuss e 35007.
Un riff fa da motorino d'avviamento a imponenti jam session grazie ai precisi ricami di Jesper Eklow alla chitarra, alla voce cavernosa di Paul Mayor (che suona anche la chitarra) e alla solida sezione ritmica di Mark Ohe al basso e Harry Druzd alla batteria.
Un disco fuori dall'ordinario.
17. Daughter - If You LeaveUna menzione doverosa va a questa band e alla sua cantante, Elena Tonra, che han realizzato uno dei migliori dischi dream folk pop di questo 2013.
18. Rhye – WomanPoco più di 30 minuti di leggero soul bianco, synth - dream pop, atmosfere tra Sade, Cocteau Twins, Feist unite alla sensualità di Robert Owens e Marvin Gaye. E canta un uomo, Michael Milosh.
19. Beth Hart & Joe Bonamassa – SeesawAnche questo è un omaggio ad una delle coppie più informa degli ultimi anni. Dopo Dont' Explain, uscito nel 2011, la coppia esce quest'anno con Seesaw. Si segue il solito schema, ovvero il recupero di pezzi classici di Ike & Tina Turner, Al Green, Etta James, Aretha Franklin, Billie Holiday. Meno a fuoco rispetto a Don't Explain, rimane comunque una qualità elevata sia nel canto di Beth (il suo recupero personale non può che far solo bene alla musica) che nella chitarra di Bonamassa, nonché in tutta la band.
20. Depeche Mode - Delta MachineAnche se a mano armata, non sono pronto a fucilare Martin Gore, come chi, dopo l'uscita dell'album. gli ha rinfacciato di aver dichiarato che questo Delta Machine ha un sound come Violator o Songs Of Faith And Devotion. Qua c'é il marketing, l'inciucio di chi intervista e di chi è intervistato. A me queste cose non interessano.
Tra i sermoni intrisi di pietà di Sounds Of The Universe e l'aggressività di Playing The Angel, Delta Machine sceglie la via di mezzo: intensità ma senza forzare la mano, strutture già collaudate (mixa Flood) e pezzi di evidente mestiere. Se Welcome To My World ricorda I Want It All di Playing The Angel (volevo dire World In My Eyes ma sono contrario alle bestemmie), Angel è, tra bassi incalzanti e distorsioni, una della migliori prove vocali di Dave Gahan – nonché una delle miglior canzoni del disco.
Ecco il singolo, Heaven, l'immancabile pezzo emo sempre presente nei dischi dei Depeche Mode. La parte centrale era il vero cruccio di Sounds Of The Universe e qua va un pochino meglio. Secret To The End, con quel intro alla It's No Good ricorda proprio l'album di cui sopra e My Little Universe ha un orecchio vicino agli ultimi scleri dei Radiohead. Slow è un ipnotico elettroblues mentre invece Broke, pur avendo un sapore alla Behind The Wheel ha purtroppo un ritornello scontatissimo – in generale i ritornelli non sono il punto di forza del disco, anzi. Idem per The Child Inside, l'immancabile pezzo cantato sempre uguale da Martin Gore da non so quanti album a questa parte. Chiude il cerchio dell'orrore Soft Touch/Raw Nerve, sorta di idm interstellare con quel sound iper patinato di Sounds Of The Universe.
Delta Machine riprende quota con il ritmo oscuro e claudicante di Should Be Higher - altra balle prova di Dave – e Alone, bel duetto tra Martin e Dave tra bordoni e tappeti di synth. Per gli amanti dell'attività fisica, chiude Soothe My Soul che vorrebbe essere una Personal Jesus 2.0 – non ci arriva minimamente ma ai concerti farà ballare tanta gente – e Goodbye, altro onesto elettoblues che molto probabilmente verrà usata come chiusura dei concerti, appunto.
Delta Machine non è un capolavoro e ed è un disco che sta sopra la sufficienza. Ha buone idee, un sound a volte troppo collaudato e il problema che secondo me affligge i Depeche Mode da un po', ovvero il tenere la barra diritta per tutta la durata di un disco. L'ispirazione calante di Martin Gore, fisiologica per chi fa musica da 30 anni, è appena appena mitica dai 3 pezzi scritti (come da accordi presi in passato) da Dave Gahan – per inciso sono Secret To The End, Broken e Should Be Higher. Il buon Dave ha sempre voce e carisma da vendere ma mi è oscuro l'apporto di Andy Fletcher. Non contenti, tutti gli ultimi lavori superano abbondantemente i 50 minuti, dove un People Are People (1984) ne durava 41.
Il sempre buon Play The Angel, una straordinaria discografia e una spendibilità del marchio che fa registrare sempre sold out tutte le date dei tuor, hanno allungato la vita della band oltre le più rose previsioni. Delta Machine non fa che rafforzare quanto detto sopra. Purtroppo i Depeche Mode di oggi sono questi per chi cerca altro il ristorante è in fondo alla strada.
E se insistete sul Delta e la macchina rimetto mano alla pistola.
ConclusioniTutte le annate per me son buone. Mi basta esser riuscito ad ascoltare musica con continuità. L'unico pecca è che solo nella seconda metà inoltrata dell'anno sono riuscito a limitare il mio brutto vizio di ascoltare tutto ciò che rientra nelle mie corde e, se pur essendo favorevole a sparare nel mucchio, spesso ciò mi porta a sprecare un sacco di tempo in dischi onesti ma che con un semplice ascolto sui canali di musica streaming avrei potuto ampiamente evitare. Spero in questo ormai già nuovo anno di poter aver un mezzo tecnologico all'altezza (vedi uno smartphone serio) e di poter trovare una soluzione che unica qualità e numero di ascolti.