| Visto il film-evento horror della stagione, quell' US realizzato dal Jordan Peele di Get Out - Scappa. Per chi l'avesse già visto, in spoiler la mia recensione: Da bambina, durante l'estate del 1986, Adelaide Thomas subisce un'esperienza traumatica sulla spiaggia di Santa Cruz. Più di trent'anni dopo Adelaide torna nella suddetta località assieme alla sua famiglia: il marito caciarone, la figlioletta un po' nerd e il figlio più piccolo un po' strambo. Già in mattinata si inizia a respirare una strana aria, con tanti piccoli particolari fuori posto, ma è la sera che la situazione degenera: chi sono quei quattro individui rossovestiti che stanno immobili di fronte a casa? Ed è solo un'impressione, o i quattro assomigliano tanto ad Adelaide e al resto della sua famiglia?
Atteso dopo l'esploit di Get Out, il talentuoso Jordan Peele ci offre un saggio del suo eclettismo, della sua cura per il dettaglio, dell'enciclopedica conoscenza in suo possesso del political horror, del suo narcisismo e di una furbizia che sconfina nel più puro opportunismo. Il tema fondante è quello del "doppio", e il Peele sceneggiatore è assai accorto nel rendere inscindibili l'aspetto psicologico connaturato al termine con quello politico-sociale: il doppio è quello che ci somiglia ma è al contempo molto diverso da noi, è la nostra immagine speculare, la nostra ombra, è ciò che pensiamo di poter rimuovere ma che ci rimane incollato addosso, sono gli scheletri del nostro passato, rappresenta ciò che "saremmo potuti essere se...". Ad un primo livello, la metafora che Peele imbastisce è perfettamente intellegibile: negli Stati Uniti (US, esattamente) la cultura prettamente individualista porta a tenere due atteggiamenti complementari nei confronti dell'altro, ovvero far finta che non esista o, altrimenti, temerlo. Attorno a questo assunto Peele innesca una sofisticata struttura di rimandi e significati nascosti nel quale ogni particolare può essere letto in relazione al tutto secondo parametri più emotivi che razionali: le tute rosse simili a quelle dei prigionieri di Guantanamo, le forbici e le gallerie sotterranee (simboli freudiani palesi), i conigli, le ombre (che rimandano a Platone più che a Jung), le mani che si stringono a formare un muro, e via dicendo. Un'enorme mole di suggestioni volutamente mercuriali e confuse, volta a suscitare dibattiti e discussioni - e in giro ce ne sono una marea - ma che altresì finisce per nuocere alla coerenza interna della storia, che vacilla sotto il peso delle metafore che mette in campo e che finisce per incorrere in palese contraddizione (la più evidente delle quali è il ricorso ad una astrazione quale quella degli "esperimenti governativi", che non solo rappresenta un escamotage facile facile, ma indebolisce la carica politica dell'opera e ne mina la credibilità: come fanno le cavie dell'esperimento ad essere consapevoli di essere tali?). Dotata di uno splendido sound design, Us è visivamente un'opera curatissima ed elegante che non ha bisogno di banali jump scares per fare paura. Narrativamente invece Peele non sembra ancora giunto a piena maturazione: le parti comiche non appaiono, come in Get Out, divagazioni fuori luogo, però non sono ancora ben amalgamate con il clima di tensione, anzi tendono a spezzare un po' il ritmo (vedasi la scena in cui i protagonisti discutono su chi debba guidare la macchina); i momenti di violenza poi sembrano "trattenuti" e poco incisivi, fatti apposta per essere digeribili da un'audience non adusa all'horror. Complessivamente, US è un'opera affascinante ma poco coesa e soprattutto meno dirompente di quanto sarebbe potuta essere (e, forse, di quanto lo stesso Peele auspicava), condizionata in negativo proprio dal suo proporsi come film-evento. E' altresì piena di spunti di riflessione e di dibattito, il che, in un'epoca in cui i film di successo sono didascalici e semplicistici, non è cosa da poco; proprio per via delle sue smisurate ambizioni, però, US fa al contempo risaltare come Peele ancora non possegga la statura culturale dei suoi modelli (Carpenter, Romero, Kubrick), quella statura che gli avrebbe permesso di reggere con coerenza fino in fondo tutte le implicazioni messe in campo dalla sua sceneggiatura. Per chiudere con supponenza questa mia recensione, cito un brano letterario a cui il film mi ha fatto pensare:
Una notte la gente dello specchio invase la terra. Irruppe con grandi forze. Ma, dopo sanguinose battaglie, le arti magiche dell’Imperatore Giallo prevalsero. Egli ricacciò gli invasori, li incarcerò negli specchi, e impose loro il compito di ripetere, come in una specie di sogno, tutti gli atti degli uomini. Li privò di forza e di figura propria , riducendoli a meri riflessi servili. Un giorno, tuttavia, essi si scuoteranno da questo letargo magico. Il primo a svegliarsi sarà il Pesce. Nel fondo dello specchio scorgeremo una linea sottile, e il colore di questa linea non rassomiglierà a nessun altro. Poi verranno svegliandosi le altre forme. Gradualmente, differiranno da noi; gradualmente, non ci imiteranno. Romperanno le barriere di vetro o di metallo e questa volta non saranno vinte. Al fianco delle creature degli specchi combatteranno le creature dell’acqua. Nello Yunnan si parla non del Pesce ma della Tigre dello specchio. Altri intende che, prima dell'invasione, udremo nel fondo degli specchi il rumore delle armi.
Jorge Luis Borges, "Manuale di zoologia fantastica"
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