NEUROPRISON

Cult Of Luna - Reviews

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Neuros
view post Posted on 22/2/2008, 16:51




Qua potete postare le vostre recensioni sui Cult Of Luna. Per i commenti andate in questo topic






CULT OF LUNA - Somewhere Along The Highway

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Anno: 2006 Etichetta Earache Records

Line-up:
Klas Rydberg – voce
Johannes Persson – chitarra, voce
Fredrik Kihlberg – chitarra, voce
Erik Olòfsson – chitarra
Andreas Johansson – basso
Thomas Hedlund – batteria, percussioni
Magnus Líndberg – batteria
Anders Teglund – tastiere


Tracklist:
1. Marching To The Heartbeats (3.17)
2. Finland (10.50)
3. Back To Chapel Town (7.13)
4. And With Her Came The Birds (6.03)
5. Thirty Four (10.03)
6. Dim (11.50)
7. Dark City, Dead Man (15.47)



Partiti sullo sterrato dell’esordio omonimo, proseguendo sull’asfalto secondario di The Beyond, incrociando strade cittadine con Salvation, ecco che i Cult Of Luna si allontanano nuovamente, solitari e imperterriti, verso la Highway.
Eredità pesante quella dell’istrionico combo svedese. Gravava sulle proprie spalle la mole importante di un album di caratura cristallina e superiore come Salvation, la consapevolezza di aver spalancato le porte del gotha di un genere elitario e oggi inflazionato come il post-core, l’ombra dell’eredità di una band come gli Isis, senza dimenticare la fondamentale influenza della madre di tutto, ovvero i Neurosis, senza diventarne infimi emulatori (un suono infatti non ispirato direttamente dalla band di "Through Silver In Blood", ma dalla quale ha sicuramente tratto giovamento dal contesto, aperto alla contaminazione evolutiva, che ne è scaturito).
Dimostrare che ormai i (defunti) Breach da maestri avevano abdicato a loro favore, e rispondendo all’appello di chi vuole le band svedesi (Umea, piccola cittadina, ha dato i natali anche a Meshuggah e Refused, facendomi interrogare su quale polvere sottile vibri nell’aria del posto) tra le più innovative della scena rock odierna.
Curando ogni minimo particolare, isolandosi da tutto e da tutti, come distrata la produzione ad opera dell’eclettico batterista Magnus Lìndberg, motore della band in ogni direzione, dalla supervisione all’artwork (stupendo, semplice, etereo, magniloquente, cupo, infetto) alla stesura delle lyrics insieme a Perrson, prima ribelli, antagoniste, capaci di accanirsi contro la globalizzazione, i diritti dell’uomo e degli animali, violente, ora invece, sempre più improntate a una soffusa introspezione (quì siamo davvero vicini ai Neurosis) dell’individuo, costretto a camminare solo, senza nessuno sguardo da incrociare, senza alcuna guancia da accarezzare, senza una meta alla quale aspirare.
Inizia la passeggiata sopra la Highway, ma non da intendere come facevano le band rock degli anni passati, ovvero un luogo di baldoria, di velocità, di spensieratezza, di libidine (Highway To Hell ad esempio), ma un luogo al margine, dove abbandonarsi ai propri pensieri, lasciar scorrere il loro flusso in maniera inesorabile, perdersi nelle luci al neon e guardare di sotto una vita frenetica che più non gli appartiene, chiudendosi nelle spalle, e facendosi guidare dal destino, che accarezza spesso, ma non sempre, le nostre vite.
Ecco che una fioca luce lontana, donata dalla speranza, arriva ad indicarci la via, sfocata, ma desiderata e seguita quindi, un lontano battito di cuore, della persona amata forse, ecco Marching to The Heartbeats:

“The sun, the light in your eyes, trapped me in a cage.
When you saw me you saw yourself.
We were the ones that marched and fell.”



Un cantado caldo e dolce, che si adagia maestoso su distorsioni di chitarra tirate fino allo spasmo, mentre il basso di Andreas predomina su ogni cosa, conducendo una danza fioca, ipnotica, scandita da lontani tamburi, quasi impercettibili, mentre flebili note di piano si affacciano timide, quasi a voler affermare in maniera gentile la loro presenza. Un intro di lisergica bellezza che ricorda da vicino gli ultimi esperimenti degli Earth, in particolare quelli di HEX: Or Printing In The Infernal Method. Livelli altissimi quindi.
La difficoltà della vita, le sue mille asperità, che stanno ogni momento in agguato, dietro angoli che spesso non si riesce a vedere, e violente ci aggrediscono, come Finland.
Camminare nei ricordi, ecco cosa, camminare tra le immagini lontane, immagini che feriscono, immagini di egoismo e disperazione, come la la propria consacrazione a discapito dell’innocenza dei bambini, ricordi di un passato che torna a galla e infila le proprie dita nel cuore, schiacciato dal peso della scalata, scalata verso la propria felicità:


“These things moved me when I turned my back. Now I return with open hands.
I found light that lead me to the shrine where children sang and pilgrims mourned.
I was lost but not alone.
From a distance they come alive. Sleepwalking across the plains.
No answers were found here. Seeking shelter in her embrace.
Down on sore knees. Erase and begin. Under my eyelids, come forth light.”



Ecco che si aprono scenari inquietanti, dopo la deflagrazione iniziale arrivano arpeggi acustici di derivazione post-rock a prendere il sopravvento su ogni cosa, in una jam session tra la raffinatezza degli Explosions In The Sky e la rabbia repressa dei Mogwai di Come On Die Young. Calma apparente che si fa in mille pezzi con i riff secchissimi del trio Johannes Persson-Fredrik Kihlberg Erik Olòfsson che feriscono la song più volte, come solo la coppia neurosisian Kelly-Von Till ci ha abituato. Giri semplici che girano intorno a un drumming ossessivo e marcatissimo, opera della coppia Lìindebrg-Hedlund, capace di martoriare lentamente il proprio drum-set, mentre Rydberg da sfogo alla sua rabbia con un growl possente e disperato, dando voce alle sue domande senza risposta, alla sua fragilità che viene manifestata nel finale, scorribanda strumentale dove le chitarre squillano aquiline, grazie ad un effetto pseudo-mandolino caro ai This Will Destroy You.
Ed è alla stessa maniera che si apre Back To Chapel Town:

“Floating over empty streets. Away from pain, away from everything.
Pray that we will survive the night. Buildings falling, the soul vaporised.
Watching you sleep, but I know that your heart has grown cold.
Let me dream if only for tonight, that we leave together in the first morning light.
Alone and forgotten. I bow my head in shame.
Before you all answers reveal. So I sink my sorrows in the sea.”



Ecco che si attraversa la propria infanzia, grigia, rinchiusa dalle mura inespressive della città, sopra le quli sfogare la proria rabbia, mentre il sange esce dalle nocche, e una sensazione di pace instabile si insinua nel profondo dell’animo, andando a intaccare come petrolio su una spiaggia, i sogni rimasti, i sogni di redenzione e luce, ciechi dinanzi alle risposte.
Echi pink-floydiani, che provengono direttamente da capolavori immortali quali Dark Side Of The Moon, Meddle e A Saucerful of Secrets, e proprio qua risiede la grandezza del combo svedese : riuscire a inglobare miriadi di caratteristiche, anche abusate nel panorama musical, ma donando loro nuova linfa, carattere proprio, proprio per questo, musicalmente parlando, li ho sempre definiti i Pink Floyd del 2000, paragone azzardato, vero, ma personale e sentito. Riff scarni e dilatati, memori degli esordi ancora influenzati dallo sludge, come avvenne per gli Isis, ma, come la band di Aaron Turner, evoluzione è la parola d’ordine, ed ecco che i lidi lambiti sono quelli del monumentale Panopticon, un cammino distorto, uguale nell’apertura e nella chiusra. Un brano violento e cupo.
Ed ecco che la dannazione iniziale torna a insidiare la mente, con With Her Came The Birds, parentesi dannate e delicata, dove si corre verso ambienti lontani, quasi dimenticati, una dannazione che desidera morte, una sofferenza che deve finire, in pasto ai corvi, ed ecco che lontana una figura si staglia, lei, che arriva nel momento della fine, per aiutare o finire? Questo non è lecito saperlo, mentre avanzano con lei, gli uccelli:


“Night falls, silence takes a grip. Guilt I retrieved, a burning will to die.
I need this to be over before I am bleeding dry.
Somewhere along the highway these tracks must end.
I pass a crowd on my way to the house on the hill.
Dead man with pitchfork arms tells me all that he knows.
Leave me here for the crows.
In the Fall she came back, and with her the birds.”



Un anfratto acustico che cita I progetti solisti di Scott Kelly e Steve Von Till, una piccolo spiaggia tranquilla fatta di arpeggio appena distorti e fumosi, un pò Red Sparowes un pò blues, mentre in lotananza addirittura echi country di un banjo fan capolino, a voler ribadire le capacità di sperimentazione della band, che nel suo lento ma inesorabile procedere, scalfisce l’apparato emozionale dell’ascoltatore, e, come un acqua cheta fa crollare i ponti, loro radono al suolo le difese emotive, in un turbinio simbiotico tra noi e la band.
Una simbiosi che acquista maggiore forma nella semi-strumentale Thirtyfour.
I suoi occhi, il suo sguardo come punizione, un sogno debole che sparisce all’alba, come tutti i sogni. Si aspetta la fine, in silenzio. La sua figura quasi impercettibile, quasi inesistente.
Momenti di pace, dove il vento soffia lontano la sabbia, riportandola magari nei luoghi dalla quale essa proviene. Dietro le dune la falsa speranza aspetta chi ha perso quello che amava:


“In her eyes he stares at his reflection. A faint dream, that disappeared at dawn.
Standing at the shore patiently waiting. But the waves do not return when she is gone.
So he followed her footsteps, to the highway that sealed his fate.
The wind blew all sand away. Faceless people that walked astray.
Behind the dunes false hope awaits the ones that lost what was loved.”



Un’altalena emotive incredibile dove dissonanti esplosioni chitarristiche si alternano a momenti di dolce quiete con le sue chitarre scandite come solenni rintocchi di campane, e il suo canto aggressivo e tagliente su crescendo sonori, voli pindarici di pura classe musicale che, come s'intuisce, al culmine dell'aggressività, si abbelliscono di un bellissimo e smorzante giro di tastiere, che ricama scenari accoglienti, figli di un tempo che non c’è più.
Che la fine sia imminente?Lei guarda dall’alto, impassibile, guarda e silente gode della nostra situazione, mentre nuvole scuro muovono a coprire il cielo, quasi a voler separaci dall’infinito del cosmo e rendere quel momento intimo, una balletto solitario da danzare all’infinito, mentre gli uccelli volano sopra la testa, e confondo i sensi, mentre si pensa alla propria speranza perduta, e come giocavamo con la vita nostra e quella degli altri. Dove si è persa la memoria di tutto?
Ma forse è solo un cammino impervio per l’espiazione dei peccati, per trovare un luogo dove i nostri cuori battano come uno. Questa è Dim:

"From the skyline dark clouds move in. They shroud me with her cold cover.
Eyes like daggers puncture the skin. Isolated in a room with no others.
Where do I turn when all hope is lost? Where do I find forgiveness?
My search for salvation has begun. To find a place where our hearts beat as one."



Si ritorna a battere territori più apertamente contaminati, con la partitura in evoluzione per tutta la durata, sibillina, sempre al limite, una varietà strutturale e sonora, qualche lampo di elettronica affiancato alla batteria possente, le chitarre dilatate che a tratti sembrano slide, ripetute fino allo spasmo, l'esplosione vocale di chiusura che sembra l’urlo finale di un dannato.
E si arriva all’epilogo dunque, inaspettato, o forse no. Dark City, Dead Man.
Una città oscura, un uomo morto. Forse la città oscura che risiede all’interno di noi.
Perché non arriva epilogo, una ricerca eterna, dannata, come punizione o dedizione. Voluta o forse odiata. Perché lascia nel limbo, como gli ignavi, come coloro incerti del loro futuro:

"When the streetlights fade. Warm rain like judgement descends.
Their voice numbs me. Speaking words in a dead tongue.
I have walked a road that lead me back to you.
From a window our glances met. My true colours I cannot hide."


Tutti gli elementi del disco vanno a confluire in un perfetto giro reiterato (con qualche piccolo intervallo/variazione), per chitarre post-core emotive e violente , batteria incisiva e urlo disperato (i primi 6 minuti) che scivola in costante crescendo strumentale sino all'esaurimento delle forze (ultimi 10 minuti), con lontani echi trip-hop e campionati, elettronica e sangue amaro, arpeggi distorti e ritorni acustici, rabbia e felicità, vita e morte,mentre la pioggia scende in maniera silenziosa, a bagnare il viso, e coprire le lacrime.

Edited by Neuros - 22/2/2008, 17:08
 
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LocustStar
view post Posted on 24/2/2008, 17:26




da http://ascensionmanifest.blogspot.com/

CULT OF LUNA - "Salvation"

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Ammetto che solo in tempi recenti sono riuscito a comprendere la portata di un album come Salvation. Spesso, molto spesso direi, tante opere svelano tutto il loro valore dopo parecchio tempo e, parlando a titolo personale, questo terzo episodio discografico dei Cult Of Luna rientra perfettamente nella schiera. Quando quattro anni fa venne immesso sul mercato, l'accoglienza riservatagli da gran parte della critica fu alquanto tiepida. Non voglio certo mettermi qui a criticare i giudizi altrui o a fare del becero revisionismo, anche perché “Salvation” non è certo un capolavoro, è doveroso ammetterlo. Rappresenta una fase di transizione per il seven-piece svedese, un momento interlocutorio in cui i Nostri imboccarono la strada che li portò, lo scorso anno, alla forgiatura di un disco enorme come “Somewhere Along The Highway”, lavoro che la maggior parte della critica ha elogiato meritatamente. Il passaggio dalle scorie neurosisiane di “The Beyond” alle strane fattezze di “Salvation” spiazzò non pochi. Fatto sta che qui i Cult Of Luna iniziano a recidere quel cordone che li legava ai padri Neurosis, lavorando maggiormente ad un sound più personale, dove la potenza delle chitarre veniva in parte smagrita, caricando di contro il corpus sonoro di elementi fino a quel momento relegati ad un livello inferiore. Lunghe digressioni affluiscono in immaginifici ed ampi spazi di vuoto, radure fluttuanti che a momenti flirtano con l'ambient, in cui gli echi si accendono e spengono ripetutamente. Lo schiudersi di Echoes, l'intermezzo di Vague Illusions, gran parte della soffusa Crossing Over (che ammicca al diluito e sognante post-rock dei Sigur Ròs) ricalcano fedelmente questa tendenza alla rarefazione delle strutture. La maggiore consapevolezza nelle proprie capacità descrittive conduce i sette di Umea a dipingere climi notturni dove la luna è una gelida lampadina che buca il nero vellutato di un cielo dove gli astri sono evanescenti. La voce di Klas Rydberg è sempre urlata e sconfortata, si abbandona all'afflizione totale, come in preda ad un vigoroso pianto nervoso. La disperazione di una Leave Me Here vale invero più della metà dell'intero viaggio: uno spesso muro di onde ci scuote prima dell'abbandono in discesa verso l'abisso accompagnati da giri post-rock. Elemento quest'ultimo molto presente ma nel contempo plasmato secondo i dogmi della psichedelia, fuso con le sue esplorazioni spaziali. Le strutture del post-hardcore primigenio si dilatano per dare vita a qualcosa di fascinosa eleganza e di magari ancora acerba ma nel contempo innegabile particolarità. La prima parte di Waiting For You pare anticipare la desolazione di “And With Her Came The Birds” (inclusa in”Somewhere Along The Highway”), salvo poi innervarsi con un potentissimo riff che la fa letteralmente esplodere, dando luogo ad uno strumentale (solo nel finale è graffiata dalla voce di Klas) di dieci minuti di rara intensità. La maniacale cura delle dinamiche nei brani è un particolare fondamentale per l'economia del suono dei Cult Of Luna, i quali, lavorando su architetture a climax, lasciano che la profondità aumenti progressivamente. Stilisticamente parlando non è menzogna dire che qui le intuizioni del capolavoro “Kollapse” dei Breach vengono elaborate a dovere. Disco da riscoprire e sviscerare per coglierne l'essenza, carica di sfuggevole bellezza.

(Earache, 2004)
Echoes / Vague Illusions / Leave Me Here / Waiting For You / Adrift / White Cell / Crossing Over / Into The Beyond

da Silent Scream Webzine

CULT OF LUNA - "Somewhere Along THe Highway"

Raggiunge il picco di massima ispirazione l'ego artistico dei Cult Of Luna. Cielo e mare sembrano improvvisamente invertire le rispettive posizioni, piegandosi ai voleri del magma sonoro eruttato dal collettivo svedese. Mai così complessi e cerebrali, mai tanto abili nel riuscire a dipingere attraverso i suoni scenari così apocalittici e desolanti, interrotti qua e la da vaste aree diradate e visionarie. Si scende spesso verso l'abisso marino come nell'impalpabile opener “Marching To The Heartbeats”, che evoca flussi acquatici degni della Lisa Gerrard di “Whale Rider”; altrettante parole possono essere spese per “Back To Chapel Town”, in cui si scorgono intarsi armonici mirabili. Ma la grande risorsa di “Somewhere Along The Highway” è saper evocare con estrema facilità scenari meravigliosi, cosa che riesce in maniera quasi disarmante in “And With Her Came The Birds”, che proietta l'immagine di un ampio campo di grano, la cui uniformità viene interrotta sporadicamente da lievi raffiche di vento gelido e reso d'oro abbacinante da un isolato raggio solare che squarcia la coltre di plumbee nuvole che avvolge la scena come un drappo funebre: quasi inquietante alla maniera degli ultimi Earth. Da più parti pare che stia per venire giù il cielo intero sotto forma di meteoriti liquidi mentre il suono acquisisce forma attraverso organiche stratificazioni. “Finland” si agita tra tribalismo neurosisiano ed attitudine metallica figlia degli Isis; “Thirtyfour” fluttua tra pastosi inserti elettronici che conferiscono maggiore pienezza e sfumature alle atmosfere; “Dim” è un volo su selvagge distese in una frizzante alba in compagnia dei Red Sparowes; “Dark City, Dead Man” è un'odissea di reiterazioni e crescendo in cui è racchiusa l'intera essenza dell'opera. L'emozionalità è altissima tra queste note, la profondità sensoriale di ogni singolo passaggio impossibile da descrivere per mezzo di semplici parole. “Somewhere Along The Highway” è un disco che va vissuto, assorbito, amato, un'apocalisse “noise-core” di spoglia magnificenza. Sublime naufragare tra gli astratti mari della psiche.

 
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mimhe
view post Posted on 16/6/2008, 22:56




Online la recensione baronale.

CULT OF LUNA - ETERNAL KINGDOM

 
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Neuros
view post Posted on 14/10/2008, 21:14




Cult Of Luna - Eternal Kingdom

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Line-up:
Klas Rydberg - vocals
Johannes Persson - guitars, vocals
Erik Olòfsson - guitars
Fredrik Kihlberg - guitar, vocals
Andreas Johansson - bass guitar
Anders Teglund - keyboards, samples
Thomas Hedlund - drums, percussion
Magnus Líndberg - drums, sound engineering


Tracklist:
1. "Owlwood" - 7:39
2. "Eternal Kingdom" - 6:41
3. "Ghost Trail" - 11:50
4. "The Lure (Interlude)" - 2:33
5. "Mire Deep" - 5:10
6. "The Great Migration" - 6:32
7. "Österbotten" - 2:19
8. "Curse" - 6:30
9. "Ugìn" - 2:44
10. "Following Betulas" - 8:56



Si potrebbe dire che sia il nono membro dei Cult Of Luna. Si potrebbe dire che sia stato il loro nume ispiratore. Si potrebbe dire che è stato il destino. Si potrebbe dire che sia solo una fantasia.
Si potrebbe quasi dire qualsiasi cosa.
E’innegabile però che il quarto parto della band di Umea sia legato con un filo indissolubile all’oscura figura di Holger Nilsson. Chi fu questo personaggio? Sono i COL stessi a tramandarcelo tramite le parole di Johanees Persson, il quale narra dell’incontro con Nillson avvenuto in un manicomio istituzionale sperduto tra i boschi svedesi. Nessuna stretta di mano però, nessuna parola, Holger viveva nei suoi stessi manoscritti : “Racconti da Eternal Kingdom”; accusato dell’omicidio della moglie e condannato all’ergastolo, passò i suoi anni a scrivere e disegnare di quel mondo sconosciuto ai più, quel mondo dove convivono salute e malattia, sanità mentale e pazzia, delineati da confini spesso soggettivi. E’possibile che Holger Nilsson sia stato innocente, non lo sapremo mai, ma possiamo cercare di comprendere il genio instabile che sta dietro quest’album, ripercorrendo il suo cammino attraverso ogni canzone.
Dopo un disco spartiacque come Somewhere Along The Highway, capace due anni fa di aprire nuove strade a un certo tipo di post-core, i Cult Of Luna erano chiamati alla definitiva presa di coscienza dei propri mezzi che portasse alla consacrazione, raccogliendo i frutti di quanto seminato nei tempi precedenti, chiudendo quel cerchio iniziato con The Beyond.
Ed è proprio da quel primo album che la band riprende forza, passo quasi scontato alla luce (termine quanto mai inappropriato) del diario di Nilsson, filtrando ogni passo tramite i repentini cambi di umore di Salvation e la solitudine di SatHw.
Owlwood da il suo amaro benvenuto a chi sceglie di entrare in quest’album, a mani aperte, grosse mani che schiaffeggiano. I riff si sono fatti decisamente più pesanti rispetto al passato, e la frustrazione vocale di Klas Rydberg è prova tangibile di questa rinata pesantezza. E’lui Holger Nilsson, è lui il narratore che fa strada nei dintorni del manicomio, che presenta le stanze, che incontra i suoi tetri inquilini. Un istituto immerso nel verde, ma oltre quel verde vi è il nulla.
Il suono è saturo come non mai, le chitarre però non erigono un vero e proprio muro, ma si rincorrono in un riffing ben distinguibile, che sposta il baricentro della band dagli originari gradini sludge verso un dannato piano doom. Gli arpeggi di Erik e Fredrik fanno il resto per portare il silenzio sul componimento, mentre in sottofondo i samples di Anders sono sibillini, instabili.
E dopo tutto il clangore iniziale la canzone si chiude nella più inattesa dolcezza.
Dura poco.
La titletrack è un guanto di sfida verso la legge che si è fatta mattone, verso la mano spesso corrotta della giustizia che non rispetta essere alcuno, confinando i propri figli in luoghi dove nemmeno le bestie dovrebbero vivere. Una furia ceca che si abbatte sull’ascoltatore e salta da un riff all’altro, mentre il basso di Andreas di nascosto piange. Con una mano al petto Klas grida tutto il suo dolore, sentimento di chi vede il proprio passato lontano, che non tornerà più. Le claustrofobiche atmosfere sono intervallate da piccolo spiragli di luce, dove filtra una tenue melodia, alter-ego di ciò che accade in superficie. Il finale rallenta il passo e si fa distorto, battendo sui freddi muri di quella prigione, per mettere in chiaro ancora una volta quanto siano fredde quelle mura.
E’un cammino fisico quello che si compie, ma più passa il tempo più ci si dirige verso l’altra (eterna) faccia della medaglia, l’edificio che sta dentro ognuno di noi, quell’impenetrabile palazzo che è la mente umana
E così Ghost Trail arriva in punta di piedi, introdotta da una marcetta che ricorda il flusso di pensieri di Joyceiana memoria. Le atmosfere si dilatano, si fanno rarefatte, crescono poco a poco, si separano in frammenti, si spargono al cielo notturno e volano in alto, dove arriva il solo di Johannes. Si un assolo liberatorio, inusuale per i Cult Of Luna, inusuale per il genere, ma allo stesso tempo di una bellezza struggente, accompagnato dal piano , che ferma il tempo e pare quasi dare speranza in quel luogo di desolazione, dove la civetta continua a guardare, a controllare, a punire, come l’occhio di The Beyond, ma spesso e volentieri decide di girarsi dall’altra parte e tradisce. Vede tutto e distorce tutto. Un crescendo emotivo inaudito.
Che si spegne.
La testa inizia a remuginare, inizia a dondolare avanti e indietro in maniera costante, sudore che imperla la fronte, pulsazione che aumentano, con il basso che cresce e i rintocchi elettronici che scandiscono il tempo. Mani che tremano. Rabbia che esplode.
E’una chiusura tra le più pesanti mai udite in casa COL, opprimente, nera come la pece, sguaiata, memore delle efferatezze compiute da moloch come gli Ufomammut.
The Lure è un interludio strumentale di pregiata fattura, una tentazione appunto, dove dolci chitarre si incontrano con i suoni di un carillon e con trombe lontane (opera di Erik Palmsberg). Una parentesi barocca dopo tanta violenza. Si è sempre nella mente di un condannato all’ergastolo.
La discesa riprende, continua imperterrita con Mire Deep. Da una parte la tranquillità della parte strumentale, dall’altra l’irrequietudine di Klas. Parole che salgono oltre le fronde degli alberi e si elevano al cielo invernale, si alzano verso la natura più selvaggia. Che risponde.
Il drumming di Thomas si fa serrato, potente, colpisce dritto allo stomaco e non lascia prigionieri, bastano già quelli dell’istituto. La Locust Star di Eternal Kingdom è appena esplosa.
The Great Migration è una lenta e sofferta marcia di riff sfilacciati e gonfi di odio, sbilenchi, come solo i Breach sapevano fare, ma i COL ci aggiungono tutto il loro alone dannato, come una supllica rivolta alla verità, che ancora una volta volta lo sguardo, e lontano da lei tutti trovano unicamente il proprio inferno.
Da questa prima metà del tragitto emerge uno spiccato ritorno alle atmosfere più nefaste di The Beyond, ben rappresentato anche dalla tematiche della civetta, che come il Panopticon sta sopra ogni cosa. Le progressioni di Salvation non mancano di certo, le parti più pacate di SatHw paiono scomparse, e invece no, ascoltando attentamente se ne sentono perennamente gli echi in sottofondo e soprattutto nella scelta dei riff, ben scanditi, come dei rintocchi a morto. Una produzione notevole, opera di Magnus come sempre, che conferisce un suono tondo e corposo, che pone la sezione ritmica in rilievo come da tradizione svedese. Pare un sunto di quanto fatto in tutta la carriera, vero, lo è, ma dall’ascolto attento possono emergere questi e tanti altri nuovi particolari. Si è voluto fare il punto della situazione, e considerando la giovane età del combo, ben venga, contando che ci sono almeno altri tre o quattro album all’orizzonte. Sempre con la consapevolezza che non abbiano mai sbagliato, e con quest’album vogliono ribadirlo.
Osterbotten riprende le danze e ripercorre le sperimentazioni elettroniche proposte nell’album precedente, come un drum n’bass drogato e imbottito di tranquillanti, rivestito di un alone cosmico. Lo stesso alone maledetto che imperversa per tutta la regione.
Curse è un ricordo, una memoria che preferibilmente dovrebbe rimanere nascosta ai margini della mente, e invece riaffioria nelle glaciali notti invernale, quando anche il ghiaccio che si spacca nel Baltico pare produrre fragori immensi. Lenta, lentissima, malinconica, Curse cammina sul baratro della pazzia come nessun’altra delle canzoni di Eternal Kingdom, con un blocco centrale nervoso e multiforme, che si fa distorto e poi saltellante grazie a Thomas, con le mani di Holger che affondano nel viso. Mani colpevoli. Terra maledetta.
Ugìn è un blues svedese semplice e accattivante, forse uno scherzo trovato tra le pagine di Nilsson, forse un piccolo tributo agli ultimi Earth, chissà.
Following Betulas. La fine del racconto. La fine del viaggio.
Si intravedono tra le chitarre i suoni che hanno reso grande un album come Oceanic, ma i Cult Of Luna ci mettono una rabbia inaudita, una sezione ritmica viva come non mai, mentre le chitarre disegnano arabeschi psichedelici insieme ai loops elettronici di Anders.
Paiono convinvere in nove minuti le anime di tutti i residenti del manicomio, ci sono dita che battono sui tavoli, ci sono pianti silenziosi, urla belluine, ci sono l’autoritarismo delle guardie che piacchiano, c’è la voglia di fuga, sia solo con la mente.
E’un Nilsson sul promontorio che porta alla pazzia, che con un ultimo barlume di lucidità chiede perdono, condanna il sistema, condanna la sua terra, guarda negli occhi la civetta, non c’è alcun bisogno di parole. Momento solenne.
Il cuore batte sempre più forte, al ritmo di Thomas e Andreas, lo sguardo rivolto a luna sempre più bassa, la consapevolezza che la vita sia finita da molto tempo ormai, solo il fruscio delle betulle lontane dona un ultimo alito di conforto, e, solennemente, piangono anche loro. Suono di trombe, rullo di tamburi, mani al petto, entra il freddo. Il viaggio è finito.

Umea vede Boston.
 
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PostNero
view post Posted on 19/10/2008, 17:17




In Linea per tutti voi la recensione di Noize Italia :B):

Cult Of Luna - Eternal Kingdom
 
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