NEUROPRISON

Isis - Reviews

« Older   Newer »
  Share  
Neuros
view post Posted on 22/2/2008, 16:56




Qua potete postare le vostre recensioni sugli Isis. Per i commenti andate in questo topic




ISIS - Oceanic

image

Anno: 2002 Etichetta: Ipecac Recordings

Line-up:
Aaron Turner - guitar, vocals
Bryant Clifford Meyer - electronics, guitar
Jeff Caxide - bass
Michael Gallagher - guitar
Aaron Harris - drums


Tracklist:
"The Beginning and the End"
"The Other"
"False Light"
"Carry"
"-"
"Maritime"
"Weight"
"From Sinking"
"Hym"



Era l’anno 1996 quando sulla scena pe(n)sante irruppe Through Silver In Blood, il lasciapassare dei Neurosis verso il gota della musica estrema. A Boston, ovvero sulla posta opposta ai sei di Oakland, alcuni amici rimasero talmente folgorati dal suddetto album da mettere su una band che ne ricalcasse le orme. Era il 1997 e le coordinate erano quelle neurosisiane e dello sludge più marcio.
Le liriche erano già qualcosa di profondissimo all’uscita dell’ep omonimo e Mosquito Control.
L’evoluzione era nel loro dna e crebbero, crebbero in maniera tale da sfornare dopo pochi mesi due capolavori assoluti come l’ep Sawblade e il primo full-length : Celestial. Questa band risponde al nome di Isis, e il suo leader maximo Aaron Turner, in seguito capo anche della straordinaria Hydrahead Recordings, è il genio che si cela dietro il concept del loro album di consacrazione, un album feroce e intimista, capace di commuovere e sbalordire, di spazzare via ogni dubbio su chi sia la band erede dei Neurosis : questo e oltre è Oceanic.
A parere di chi scrive questo è il punto di non ritorno dell’odierna scena post-hardcore/rock, capace di influenzare una quantità impressionante di band, e non stiamo parlando di sconosciuti, ma da annoverare ci sono gruppi del calibro di Cult Of Luna, Tides, The Other Side Of The Sky, Pelican.
L’esplosione mediatica della band è avvenuta con l’ultimo In The Absence Of Truth, album sicuramente straordinario, ma se ascoltato in parallelo con questo capolavoro, non regge il confronto. L’esplosione mediatica ha portato gli Isis alla ribalta, ma ha fatto perdere di vista il genio puro che si celava dietro due album imprescindibili come Oceanic, appunto, e il precedente Celestial, dove davvero è stata apportata una ventata di freschezza a un movimento che rischiava di inciampare nell’auto-contemplazione dei canoni neurosisiani.
Per prima cosa l’artwork, a opera dello stesso Aaron Turner, riporta alla luce il tema dell’acqua, affrontato in Red Sea e Celestial. Acqua come simbolo purificatore, ma acqua anche come punizione, dove annegare, dove perdersi, dove abbandonarsi all’oblio.
Il tema portante è quello dell’amore, amore (in parallelo con l’acqua) come salvezza e perdizione, in quanto si narrano le vicende di un uomo, che, sull’orlo del baratro, riesce a riavvicinarsi alla vita grazie all’incontro con la sua anima gemella, ma è un amore tormentato, poiché egli non sa che la donna amata, ha già da tempo un legame con suo fratello, e la disperazione sarà tale che...
...ma partiamo dall’inizio : The Beginning And The End.
L’inizio e la fine. Lì, in apertura di album. E Aaron Harris ad aprire le danze con un semplice intro di batteria, che da il la alle chitarre di Clifford e Gallagher, chitarre dal sapore rock, un rock inedito, quasi classicheggiante, ma che con il passare si trasforma, con un onda in balia del vento, e diventa un riff possente, sofferto, sul quale svetta la voce roca di Turner, E come l’onda arriva, sparisce, lasciando spazio ad andamenti circolari che faranno la fortuna delle band a venire. Arpeggi e riff sovrapposti, che si spengono e ricompaiono, come la luce di un faro e in lontananza, illuminata dal fascio, si staglia la figura di Maria Christopher dei 27, guest che incarna l’anima gemella, ed ecco che dolce e sensuale arriva l’abbraccio con il suo lui, un abbraccio amaro, perché in fondo, nasconde un sentimento di pietà, non d’amore, e le chitarre son lì a battere sul cuore di entrambi, pulsanti più che mai, quadrate, ossessive, illusione e sogno:


The water flies
Over his head
You are me now
As you lay on my bed
This is what he'd always known
The promise of something greater beyond the water's final horizon


E l’abbraccio si sciogie in un finale dove fanno capolino l’elettronica e i campionamenti, ma più fisici e meno eterei di quelli dei Neurosis, quasi trip-hop se vogliamo, poggianti sul post-rock più fluido e incisivo.
E The Other nuove chitarre ipnotiche ci portano all’interno della mente della donna, lei che sa, sa di sbagliare, di illudere con ogni sua parola o gesto, sa che il suo cuore è già impegnato, in un triangolo che odora già di disastro, poiché il sangue è lo stesso tra i due contendenti, fratelli. E le chitarre urlano, Aaron urla, come mille voci nella sua testa, che paiono provenire dalla sua coscienza, dall’innamorato, dal suo amato, ognuno che si scaglia contro il nulla, ognuno che in fondo sa che qualcosa non potrà andare per il verso giusto, poiché l’altro è l’inizio…della fine.
E in un finale epico ed evocativo, dove le vocals si fanno pulite e lontane, le urla cessano e si fa il largo il silenzio.
False Light ci riporta nuovamente nel cuore apparentemente ricucito dello spasimante, resuscitato dall’amore che pare quasi una tempesta, tempesta di emozioni, che lo porta all’abbandono totale, lo rende cieco, nient’altro è l’epilogo se abbagliati da una luce falsa. Una luce che abbaglia, violenta, come i riff del trio Turner, Clifford, Gallagher, che roboanti, ci portano trai i desideri più reconditi, quasi a lacerare gli strati di mente formatisi nel corso degli anni, e raggiunti, scopriamo una quiete ritrovata, dove il basso di Jeff fa da padrone, insieme alla batteria di Harris che leggera sovrasta gli altri strumenti, lasciando spazio solamente alle distorsioni lontane delle tre chitarre, sussurro di speranza nella quale perdersi:

Hold his hand and crush it
The depth of the charm is infinite
Discover bliss and serenity in drowning


E l’acqua è lì a vigilare su ogni cosa, silente e infinita, e i sussurri che si presentano alla fine della canzone, fanno da preludio a Carry . Distorsioni lontane e pochi accenni di batteria, rintocchi di piano, ecco, questo è il mare, un mare notturno e buio, sopra il quale si specchiano le stelle e la loro astrale luce, un mare dai ricami drone e ambiente, che si tramuta in sussurro di classe post-rock con piccoli riff elettrici che donano vita alla compsosizione, quasi come una leggere brezza che accarezza la superficie. Ma nelle profondità le correnti sono fortissime, sempre, è un’apparenza che inganna quella della superficie, poiché è sotto che tutto accade, una metafora che richiama il velo di Maya, e infatti i riff tornano a essere graffianti nel finale, maligni come la voce di Aaron.
I due minuti sintetici di sono esempio perfetto di questa illusione (influenza Neurosis), campionamenti marini che finiscono in loops noise e distorti.
Maritime invece è un sogno a occhi aperti, arpeggi soft e dolcissimi che si adagiano sopra delle keys delicate e d’atmosfera, un brano che riporta a galla sentimenti puri e positivi, un brano che in mezzo a tale intreccio lirico-musicale, pare essere uno scoglio riparato dove riposare in vista di tempeste future. E infatti arriva Weight che è una sentenza, un amarissimo spazio di quiete che esplode nel finale, fatto di poche parole, ma pesanti come macigni, prologo di una tragedia che ormai sembra essere vicina, di rivelazioni che stanno per arrivare e faranno male, che penetreranno nella carne e nell’anima, e a poco servono le vocals soavi di Maria e gli arpeggi del combo per smorzare l’atmosfera e ritmi tribali di Harris, non riescono a celare l’alone di catastrofe che arriva nel finale:

All in all in, all in a day
A day it changes everything


Ciò non toglie che il finale sia tra I più belli e toccanti del combo di Boston dove vengono ripresi gli arpeggi iniziali di False Light.
E proprio la vicinanza con la luce falsa permette al dolore di sovrastare ogni cosa in From Sinking.
La verità viene a galla, e lacrime salate lambiscono l’anima, come i riff che sono taglienti e abrasivi, scrostando via le recenti tracce di felicità, vernice fresca facile da portare via, e allora via, correre verso il mare rimane l’unica certezza, riavvicinandosi a un momento che pareva essere cancellato via, e invece eccolo, solenne e distorto come il basso di Jeff e la batteria di Harris, emozionante e drammatico, lento, meditato, gli arpeggi di chitarra sono lì per quello, per fare da contorno, per rendere il tutto meno struggente, come se fosse giusto, se fosse l’esito adatto a tutta la vicenda, e allora lui si avvicina alla riva e si immerge nell’acqua spegnendo ogni sua speranza tra le onde (riferimento all’Odissea):

Like liquid was the sadness
Until into the light he stepped
In this truth he knew himself to be
From sinking sands he stepped into lights embrace


E il roboante finale spegne le luci sulla violenza consumatasi, lasciando spazio al finale di Hym.
L’epilogo, un finale che era chiaro fin dall’inizio. Ed ecco allora che tutti gli assi di cui dispone la band vengono riposti per l’ultima volta sul banco : gli arpeggi dei tre chitarristi, le vocals sofferte di Aaron che fanno duetto con quelle pulite di Clifford, le loro chitarre che si fanno elettriche e mastodontiche, si rincorrono e si immergono nell’acqua, si fanno solenni, come la batteria di Harris, lenta e precisa e l’onnipresente basso di Caxide. Il finale è epico all’inverosimile, anticipando le ultime cose di Jesu e Vanessa Van Basten, in un caleidoscopio di suoni che scivolano via, guidati da poche e immortali parole, a chiusura di un album capolavoro, ineguagliabile:

Love flows fears no window minds time oceanic
Dissolve me
His own light, now it's gone
The thirst came on
And it came on in waves
He would dream of cells swollen with water
Blank memory washed away
Swallowed whole through eyes and teeth
 
Top
LocustStar
view post Posted on 24/2/2008, 17:16




ISIS - IN THE ABSENCE OF TRUTH
(2006, Ipecac)


Il cordone che legava gli Isis ai padri Neurosis è stato definitivamente reciso. Ma pare che la band di Boston sia sempre più intenzionata ad abbandonare una volta per tutte le sulfuree rive del post-hardcore per dirigersi verso astratti paesaggi psichedelici. A distanza di due anni da quel “Panopticon”, il cui titolo odorava di orwelliana paranoia, troviamo degli Isis diversi nell'estetica e nella sostanza. Il muro di chitarre si è assottigliato e le deflagrazioni sono meno frequenti, aumentando di contro l'immersione in condense in cui abitano suoni levigati e liquidi, figli di atmosfere introspettive e contemplative ed arpeggi che si intersecano e sovrappongono. Il “work in progress” isisiano smantella l'impianto vocale fatto di urla rabbiose in più codificabili melodie che, purtroppo, non sempre riescono ad andare a fondo. Si percepisce una certa vena “cantilenante” che a momenti poco bene si sposa col contesto. Le composizioni si allungano maggiormente su strutture che si avvalgono della lezione progressiva dei Tool (principalmente in "Not In River, But In Drops") e le tessiture ritmiche conferiscono più dinamica alle andature. Nel tessuto sonoro giunge ad imprescindibile importanza l'impiego di keyboards e synth che estraggono effetti cosmici, di stasi quasi ambient (l'incipit di "Over Root And Thorn", "All Out Of Time", "All Into Space"), toccando il vertice di meraviglia estetica in "Firdous E barene". Il crescendo iniziale di "Wrists Of Kings", coi suoi fraseggi post-rock che si intrecciano, mostra già quale sarà l'andazzo dell'intero album, che troverà in "Dulcinea" uno dei picchi espressivi più alti, fluttuante nel suo incedere dimesso e fluido, così come "1000 Shards". E’ però "Garden Of Light" il brano più affascinante e denso dell'intero lotto, con la sua ouverture che pare agitarsi lentamente tra onde di freddo magma, si impenna improvvisamente, si abbassa e respira, alza nuovamente il tiro, torna a volare radente, in una continua altalena d'intensità che sfonderà il muro dei nove minuti di durata. Non è post-rock. Non è post-hardcore. E’ tutt'e due e nulla dei due. Nonostante la caratura del songwriting sia sempre di notevole spessore, va detto che "In The Absence Of Truth" non si attesta al medesimo livello della triade “Celestial”/”Oceanic”/”Panopticon”, le prove in studio migliori del five-piece statunitense. Senza dubbio, gli Isis si trovano in un momento interlocutorio della loro carriera, una fase di transizione che li porterà a meglio definire la propria cifra stilistica in futuro. Magari tracciando la nuova direttrice che permetterà alla scena di continuare a rigenerarsi, Neurosis permettendo.

P.S: questa recensione è stata pubblicata su ilcibicida.com .
 
Top
LocustStar
view post Posted on 14/9/2008, 04:10




Il Panopticon è un tipo di inserimento dei corpi nello spazio, di distribuzione degli individui gli uni in rapporto agli altri, di organizzazione gerarchica, di disposizione dei centri e dei canali di potere, di definizione dei suoi strumenti e dei suoi modi di intervento, che si possono mettere in opera in ospedali, fabbriche, scuole, prigioni. Così Michel Foucault nel suo saggio "Sorvegliare e Punire" del 1975, dava una definizione di cosa fosse realmente il Panopticon in termini teorici, al di fuori del suo progetto originale. Uno strumento per controllare ed ordinare la società attraverso un duplice processo di segregazione/osservazione. Una sorta di Grande Fratello orwelliano ante litteram se vogliamo. Osservare senza essere visti, esercitare potere senza che questo sia manifesta forza fisica, ma solo insinuato in un'implicazione psicologica fatta di pressione nei confronti di chi lo subisce. Struttura penitenziaria concepita nel 1785 dall'inglese Jeremy Bentham, il Panopticon doveva essere un rivoluzionario sistema di incarcerazione, di rieducazione, di riequilibrio della società. Mantenere i detenuti separati ed isolati per evitare il contatto sociale, osservare il loro comportamento senza che questi possano vedere chi li spia, ma coscienti di essere potenzialmente sempre oggetti di informazione, mai soggetti di comunicazione. Un sistema di luce filtrante permette alla guardia che si trova nella torre centrale di tenere sempre sott'occhio le sagome dei detenuti rinchiusi nelle celle singole disposte ad anello intorno alla torre. Nessuna via di scampo da questo claustrofobico e deumanizzante contesto, molto simile all'assetto sociale in cui adesso viviamo. Tenuti in scacco dalla pressione psicologica esercitata dai media, altoparlanti della propaganda del “potere democratico”, siamo costantemente controllati a vista, sia da mezzi tecnologici (cellulari, fotocamere, videocamere), sia da un punto di vista mentale, col costante lavaggio del cervello che l'ottica consumistica perpetra giornalmente, generando modi di pensare e di agire preconfezionai e tutti uguali, quindi facilmente prevedibili ed “osservabili”, con l'illusione di renderci la vita ed il consumo personalizzato. Ognuno però rimane confinato nelle sue paure e nelle sue frustrazioni, soli come in celle dai muri spessi ed impenetrabili. Da questo punto parte l'idea che muove Panopticon, probabilmente il disco più rappresentativo degli Isis. Di certo uno dei più influenti degli ultimi anni nell'universo post-metal. Due anni più tardi l'ottimo “Oceanic”, disco che aveva condotto la band verso l'altare della consacrazione, quest'ultima giunge definitivamente col compendio di post-hardcore, post-rock, psichedelia, progressive ed alternative-metal delle sette canzoni qui incluse. Un perfetto album di “crossover” (se col termine intendiamo l'originale significato di “fusione di stili”), in cui forme e gerghi del rock si compenetrano e si fondono, raggiungendo equilibri senza macchia, per creare un amalgama rinnovato nelle distensioni compositive. Aaron Turner e soci, partiti dalla sulfurea claustrofobia degli esordi doom à la Neurosis, adesso si dirigono verso i chiaroscuri universi dei Tool e agghindano numerosi passaggi strumentali con giri cari ai Mogwai, senza dimenticare le ascendenze pinkfloydiane, adesso più profonde. Il corredo genetico dà quindi vita ad una serie di quadri di eccellente fattura, che trovano nell'iniziale So Did We la più alta forma di espressione, informata su continue ascese e voli in picchiata (nonostante l'attacco possente), con flussi strumentali che simulano correnti marine sotterranee e vortici di venti impetuosi: tutta la coda finale di oltre quattro minuti è semplicemente un piccolo manuale di climax e anti-climax musicale Il merito principale degli Isis è quello di non indulgere in perenni reiterazioni tematico-melodiche, avvalendosi di uno sviluppo prettamente progressive che li libera così dai vizi di forma tipici del post-rock. Ma per far lievitare i brani ci vuole pur sempre del tempo ed i lunghi ma nel contempo suggestivi prologhi di In Fiction, Grinning Mouths e Wills Dissolve (questa bellissima nei suoi intrecci di chitarra) la dicono lunga. Le digressioni di Backlit quasi ammiccano al kraut-rock degli Amon Duul, per poi re-incanalarsi tra grumose aperture post-metal. E’ invece ai limiti del trasognato il ciclico agitarsi della meravigliosa Syndic Calls, anche qui perfetto svolgersi di sali-scendi che, a volte, rischia di sconfinare in qualcosa a metà tra Godspeed You! Black Emperor e l'ambient. Quasi a sottolineare l'amore dei nostri verso l'arte sonora dei Tool viene invitato il bassista di questi, Justin Chancellor, per tratteggiare le linee di basso di Altered Colours, la quale vibra sotto le schiarite d'un pallido sole mattutino per poi inabissarsi in acquatiche distese surreali(ste). Le parti più dure contengono vigorose distorsioni di matrice noise-core, mentre Aaron Turner (di certo non un eccelso cantante) offre una prova vocale decisamente sopra le righe per tutta la durata del platter, delineando belle melodie che ben si coniugano con l'escapismo pindarico del tessuto strumentale. Anche le liriche, ispirate come detto dal progetto teorico del carcere panottico, riescono nel loro compito di creare un mondo ricco di necessità esistenziali, di ricerca umanista necessaria per gli uomini contemporanei, sempre più distratti ed indaffarati in “bel altro”. Fondamentale per l'incursione dell'universo post-core addentro le radure del post-rock (e a questo titolo si possono tranquillamente affiancare “Salvation” dei Cult Of Luna e non ultimo “The Eye Of Every Storm” dei Neurosis, pubblicati tutti nel 2004), “Panopticon” sfuma le linee di demarcazione che prima segregavano determinati modi d'intendere il rock alternativo e l'indie-metal e costituendo un corpus non soltanto musicale, ma anche “filosofico” che invita a riflettere sulla condizione umana dei nostri tempi, sempre più oppressa dal peso di un potere che ci osserva attimo dopo attimo.

P.S.: questa recensione è on-line su ilcibicida.com

 
Top
PostNero
view post Posted on 19/10/2008, 20:51




Oceanic e Panopticon per Noize Italia ;)

A presto con Celestial e In the Absence of Truth...
 
Top
PostNero
view post Posted on 2/11/2008, 18:39




Per far contento Birsa, ci siamo ancora più sbrigati a recensire Celestial su NoizeItalia!!

Meglio tardi che mai no? :P
 
Top
Edvard
view post Posted on 4/2/2010, 18:37




Ecco anche le impressioni di un nostro utente a proposito di Wavering Radiant :)

http://neuroprison.blogspot.com/2010/02/is...ng-radiant.html
 
Top
6 replies since 22/2/2008, 16:56   393 views
  Share